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Lo scopo di questo blog è far conoscere al pubblico, ai pazienti ed ai colleghi interessati, l’attività della Rianimazione dell'ospedale San Leonardo di Castellammare di Stabia, ASL NA 3 SUD; offrendo loro la possibilità di conoscere risorse infermieristiche ed esperienze facili ed utili da fruire.

3° Concorso Letterario 2010 IPASVI Ragusa

L'orologio senza tempo

Sposato con due figli, coordinatore infermieristico presso il centro di rianimazione di Castellammare di Stabia, conducevo una vita serena. Soddisfatto del lavoro che mi appassionava tanto, al punto che quando mi chiedevano: “come va il lavoro”, la mia risposta era: “ mi diverto”. Proprio così, mi divertivo nella sfida quotidiana con la morte, con la consapevolezza che una vita salvata rappresentava l’impegno ed il lavoro di tutti i miei colleghi.
La gestione del personale, non è cosa facile e soprattutto in un reparto complesso e delicato come la rianimazione. Ho iniziato da zero, non avevo modelli di riferimento lavorando otto nove ore al giorno, la difficoltà non è stata solo mia ma anche dei servizi ospedalieri che non avendo uno storico, si sono trovati spiazzati nell’approvvigionamento di farmaci, presidi e quant’altro serviva per far funzionare un reparto come la rianimazione. La rianimazione tratta la patologia del sopravvissuto, cioè di quel paziente che doveva morire e non è morto. Nella rianimazione si ci gioca l’ultima carta e non sempre si riesce a vincere la partita. Fin dall’inizio, il mio obiettivo è stato di trasmettere ai colleghi la capacità di centrare sull’individuo l’attenzione rivolta a tutelare la sua autonomia e metterla in pratica tutte le volte possibili. In rianimazione, la difficoltà che l’infermiere incontra è data dalla ridotta possibilità di relazionarsi con il paziente, pertanto, ho cercato di dare grande risalto al lavoro d’équipe, fondamentale per la buona riuscita di un intervento nella fase acuta del paziente critico. Tutte le figure professionali (medico, infermiere, O.S.S.) che lavorano in rianimazione devono lavorare in simbiosi, si devono conoscere per capacità e competenza ed instaurare spontaneamente un rapporto di reciproca fiducia che permette una vera integrazione, un modo di lavorare che superi il "mi compete o non mi compete". La guarigione del paziente, o quanto meno il superamento dalla fase critica, rappresenta il nostro successo. La conferma di questo lavoro è dimostrata quando accade che parenti, amici o addirittura qualche paziente viene a ringraziarci; rinforza in noi la motivazione e ci gratifica conferendo particolare significato al nostro operare. Lavorare in sintonia, in una situazione critica quando ognuno sa cosa deve fare, vedere il buon risultato ottenuto, è un ulteriore motivo di soddisfazione.
Un pomeriggio, mentre rientravo a casa, scivolai con la moto, una caduta che mi procurò trauma cranico e fratture varie. Soccorso, mi portarono in ospedale ed in breve tempo passai dall’agitazione al coma, intubato e ricoverato in rianimazione.
I miei, giunti in ospedale vennero informati delle mie condizioni gravissime e si dichiararono favorevoli anche ad un eventuale espianto d’organo, ne parlavamo spesso in famiglia, non solo, ma ero anche socio della sezione AIDO della mia città.
Con la donazione degli organi e tessuti è possibile salvare la vita a qualcun’ altro o rendere migliore l'esistenza di malati afflitti da patologie gravemente invalidanti. Spesso evitiamo questa domanda, ritenendo il trapianto una possibilità estranea alla nostra vita. Ognuno di noi potrebbe un giorno avere bisogno di essere curato con un trapianto e donare è un atto d’amore. Intanto i giorni trascorrevano, segnati da un orologio senza tempo.
Benedetto, uno dei miei, socio sanitario sessantenne, lavorava in ospedale da circa dieci anni collocato dai lavoratori socialmente utili. Quando venne a lavorare in rianimazione, ne sapeva ben poco ma pieno di volontà, nel lavoro dava il meglio di se, tutti i giorni veniva in reparto anche se non era di turno per farmi la barba e fu proprio lui a segnalare un arresto cardio circolatorio, immediatamente ripreso.
Cosa che ripetevo sempre: “fate attenzione al paziente durante le manovre di nursing”.
Venni tracheostomizzato e i miei figli attendevano fiduciosi, perché sapevano che solo il tempo mi poteva salvare. Mario, oltre che collega era mio amico, si nominò “case manager”, formulò un piano di assistenza completo.
Michele si doveva interessare dell’accesso venoso e delle linee infusionali, Mimmo responsabile nella gestione della tracheotomia, Mafalda curava l’aspetto psicologico con la famiglia, Gaetano, il fisioterapista, tutti i giorni puntuale con le sue mani mi lubrificava tutte la articolazioni e Paolo l’addetto alle pulizie, garantiva l’igiene e la pulizia dell’unità letto. Perfetto, come un’orchestra nella prima al San Carlo e intanto l’orologio senza tempo segnava i giorni.
“Papà torna a casa!” gridò mia figlia. Poi, il vuoto. Il buio più assoluto. Sentivo delle voci lontane, ma non riuscivo a parlare, il dottore Manfredonia, affetto da ipoacusia bilaterale, che quando conversava con gli infermieri leggeva il labiale ma compensava con un’approfondita osservazione del paziente, come al suo solito, osservava il monitor ed i miei movimenti e subito dopo la visita dei parenti cominciò a fare le prove per staccarmi dal respiratore, “voglio un EGA fra mezz’ora, voglio un EGA fra mezz’ora ecco si sta svegliando, si sta svegliando” lo ripeteva continuamente, convinto che nessuno lo sentiva. Vedevo delle ombre vicinissime, ma non le distinguevo, sentivo solo tanto freddo come una sensazione di normalità. Cercavo di parlare, ma non ci riuscivo, ero stanco, chiusi gli occhi, tutto si fece confuso ed irreale, avevo sete. Cosa avrei dato per un sorso d’acqua! Renato, un OSS del mio reparto, che stava facendo un turno di straordinario in pronto soccorso, era venuto per sapere delle mie condizioni, come se glielo avessi chiesto, si avvicinò e con una garza appena intrisa d’acqua mi bagnò le labbra, mi scappò una lacrima, mi agitavo ma non potevo muovermi. “Stai calmo,” sussurrò Renato, accarezzandomi i capelli e prendendo la mia mano tra le sue. “Non puoi parlare”. Cominciai a realizzare la mia situazione, mi trovavo dall’altra parte del muro e per stare in rianimazione avevo subito sicuramente qualcosa di grave. Tutto procedeva regolarmente, dopo dieci giorni in coma farmacologico, cercavo di parlare senza riuscirci, sentivo una grande rabbia dentro, il mondo aveva perso ogni colore, vedevo tutto in bianco e nero come in un film d’autore. Vidi arrivare il primario e come al solito, mi disse sorridendo: “Forza che bisogna fare gli ordini alla farmacia, hai consumato tutte le nostre scorte”, quasi quasi gli avevo creduto, provavo ad alzarmi ma non ce la facevo, ero molto debole, i giorni seguenti segnarono il mio progressivo ritorno alla vita. Respiravo in aria ambiente ed in infusione continua con il propofol, tranquillo e rilassato. Riuscii a svincolarmi e senza farmene accorgere rallentai il flusso di infusione del propofol leggermente, dopo circa un minuto, ero sveglio completamente. Le notti da paziente in rianimazione non finiscono mai, quella notte era di turno il gruppo di Antonio, un infermiere frenetico che non si ferma mai, compensato da Andrea soprannominato la “tartaruga”, lui sosteneva che aveva i suoi tempi, ma io ne conoscevo solo uno “slow slow”. Il dottore non si era visto, tutto era calmo, dopo la terapia e la sistemazione del reparto, i colleghi si avvicinarono al mio letto, contenti di trovarmi in respiro spontaneo, fanno un breve excursus del mio trascorso in rianimazione, Ciro si inserì nel discorso e mi chiese un giorno di ferie, per lui ero il suo coordinatore non il suo paziente, dal fondo della stanza vidi di sfuggita il dottore Donnarumma, un tipo brillante che aveva l’abitudine durante il turno di mattina, di fare colazione con mozzarella e mortadella e nel turno di notte cenava con la pizza e salame piccante, si avvicinò al letto, diede uno sguardo ai parametri vitali, se ne accorse e modificò la velocità di infusione del Propofol, dopo poco ritornai sotto il suo incantesimo. Erano appena le sei del mattino, il silenzio avvolgeva la quiete mattutina del reparto, per me impercettibile ed assordante. Il turno terminava alle sette ed io rivedevo la mia vita come in un film su ciò che avevo fatto; mi resi conto che lavorando in rianimazione ero diventato cinico e davo la vita per scontata, quella dei miei figli, l'amore per mia moglie ed invece, io, come tutta l'umanità, dipendiamo da tutto ciò che ci circonda. L'uomo è costantemente ricoperto da un’ infinità di bisogni, non ha potere per decidere cosa scegliere. Ho affrontato una grande prova, forse la più difficile della mia vita, sento che questa difficilissima esperienza mi abbia reso più forte, più consapevole. Penso che la vita, quella vera, non si trovi al di fuori, ma all’interno dell’ospedale, l’ammalato non può essere ipocrita, non può mentire, la malattia è una esperienza profondamente personale e mai del tutto condivisibile e solo grazie all’impegno ed al lavoro di equipe, ho vinto la partita. Se non sapessi di poter contare sul “mio gruppo”, forse, non sarei così legato al mio servizio.