Informazioni personali

La mia foto
Lo scopo di questo blog è far conoscere al pubblico, ai pazienti ed ai colleghi interessati, l’attività della Rianimazione dell'ospedale San Leonardo di Castellammare di Stabia, ASL NA 3 SUD; offrendo loro la possibilità di conoscere risorse infermieristiche ed esperienze facili ed utili da fruire.

Congresso Nazionale ANIARTI 2007

Pizzeria Bella Napoli.
Rianimazione a domicilio: una vita difficile
Bella Napoli, si chiamava la pizzeria che avevamo aperto mio marito ed io, un sogno rincorso da tempo e finalmente concretizzatosi dopo quattro anni di matrimonio, due figlie piccole e tanti sacrifici. Da Napoli c’eravamo trasferiti a Pompei, in un bell’appartamento sopra la pizzeria. Le cose andavano bene secondo le nostre aspettative: ancora poco e saremmo riusciti ad estinguere il debito contratto con la banca per avviare l’attività. Il nostro impegno era continuo nella gestione della pizzeria, ma non ci pesava, eravamo felici e poi a trenta anni la fatica non si avverte. Il giovedì era il nostro giorno di riposo: era una consuetudine ritornare a Napoli per pranzare con i miei. Eravamo andati prima a piazza Mercato per comprare delle nuove tovaglie a quadretti verdi e per ritirare i piatti per le pizze con il nostro marchietto stampato. A casa dei miei, dopo pranzo, ce li guardammo per un’ora quei piatti, compiaciuti. Mio padre ci teneva che preparassi io il caffè: come lo faceva la figlia non lo faceva nessuno… Mentre lo preparavo mi accadde una cosa insolita: la mano perse forza e mi cadde la caffettiera. Nei giorni a venire notai a quel braccio sinistro meno forza ma non dissi nulla per non destare preoccupazioni. Avevo preso la bici per andare all’ufficio postale. Al ritorno pedalando lungo la strada che costeggia le rovine della città antica, non so come, mi ritrovai a terra. Qualcosa non andava! Andai dal medico che mi consigliò una visita ortopedica. Più che una visita, fu una chiacchierata per indirizzarmi da un neurologo. Cominciai a preoccuparmi, perché il tempo passava ed io avvertivo sempre più quel senso di stanchezza e di debolezza. Alla fine dopo vari esami mi fu diagnosticata la SLA. La terapia consisteva nell’assumere alcune compresse ed ingenuamente pensai che sarei guarita in fretta. Non fu così, più i giorni passavano e più stavo male: a stento riuscivo a muovermi. Cominciavo ad avere difficoltà nel respirare e per aiutarmi mi portarono a casa una macchina per la respirazione assistita attraverso una specie di maschera trasparente messa sulla faccia: un vero supplizio. Le compresse non servivano a niente e peggioravo sempre di più, al punto che per spostarmi dovevo utilizzare la sedia a rotelle. Ma cosa mi stava succedendo? A trentun’anni piena di speranza e di voglia di vivere mi ritrovavo bloccata e totalmente dipendente: mia figlia un poco per gioco ed un poco per necessità mi imboccava quando dovevo mangiare: i ruoli sembravano invertiti ed in poco tempo sembrava svanire tutto quello che stavamo costruendo. Mio marito lavorava in pizzeria ed io, sola, nelle interminabili giornate, per occupare il tempo e per sapere di più della mia malattia, su internet trovai un sito dove appresi che la mia era una malattia neurodegenerativa progressiva che colpisce le cellule nervose cerebrali e del midollo spinale che comandano i movimenti dei muscoli. Non proprio quello che mi avevano detto i medici ed i miei familiari… Ero condannata. Le difficoltà respiratorie aumentavano tanto che una notte dovettero ricoverarmi d’urgenza in rianimazione. Un posto angosciante dove si sentono allarmi, rumori, odori di farmaci e si vedono infermieri andare avanti ed indietro come matti perché hanno sempre qualcosa da fare. Dopo un vuoto di non so quante ore o forse giorni mi svegliai: mi ritrovai con fili dappertutto, con un buco in gola, una grossa cannuccia dentro ed una macchina che vi soffiava aria. Cercai di dominare il mio turbamento: pensavo che sarebbe stato della mia vita, immobile in un letto d’ospedale, senza poter tornare a casa e vedere i miei figli e mio marito. Gli infermieri mi facevano larghi sorrisi e mi parlavano ma io non sentivo nulla: tutto mi sembrava una scena di film a rallentatore senza audio. Tante domande appese nella mia mente senza risposta: sarebbe stato meglio morire. Dopo circa un mese di punture, sondini, cannule, cateteri, aspirazioni, iniezioni, sentii parlare della possibilità di tornare a casa: significava che le cure stavano facendo effetto? Il mondo mi passava accanto, uguale a se stesso, ma profondamente cambiato, mi sentivo come se stessi precipitando in quel film al rallentatore, in attesa di toccare terra e scoprire dove mi trovavo. I miei occhi si coprirono di lacrime. Nell’alzare lo sguardo, intravidi due persone sconosciute: erano un infermiere ed una dottoressa. Lei era inequivocabilmente sudamericana e si chiamava come l’ultima regina d’Italia Maria Josè, solo che quando parlava, non la capivo tanto; invece l’infermiere era un provinciale smarrito, con un forte accento dialettale di Castellammare o di Sorrento. Venivano da un’altra rianimazione, quella della mia ASL di appartenenza. Si avvicinarono al letto e mi fecero tante domande: chi era il “familiare di riferimento”, il medico curante, quando poter fare un sopralluogo a casa e tante altre cose. Quei due sembravano due personaggi in cerca d’autore che secondo me capivano ben poco dei miei problemi: più che altro due impiegati, con tutte quelle domande! Saranno stati pure brave persone, ma io avevo bisogno di buoni professionisti, conoscitori del mestiere, capaci relazionarsi in maniera adeguata, aiutandomi a comprendere che diavolo stesse accadendo al mio corpo, anche per dare un senso a quello che rimaneva della vita. Se ne andarono e non li vidi più per un paio di settimane. Ma di andare a casa nemmeno l’ombra; i miei genitori e mio marito erano sempre volutamente vaghi, tanto che mi convinsi che avrei passato lì dentro molto altro tempo. Quando ormai le speranze erano perdute, si ripresentarono la regina e il provinciale per portarmi a casa e per prendermi in carico nell’assistenza domiciliare: fu come rinascere. Con il filo di voce che mi permetteva la cannula tracheale chiesi al provinciale il perché di quel ritardo. Mi disse che quei giorni erano serviti per preparare in casa mia una piccola rianimazione; parlò di gruppo elettrogeno, aspiratore, ossimetro, va e vieni, telemedicina e tante cose mai sentite. “Tutto deve girare alla perfezione come un orologio svizzero-napoletano: cioè massima precisione ma con elasticità” mi disse con fermezza. Ma depressa com’ero in quei giorni, non mi persuase molto… Avevano perfino addestrata mia cognata Marianna all’aspirazione nella cannula: poverina fino a quel momento sapeva solo di faccende domestiche e si spaventava alla vista di una goccia di sangue! La mia malattia era diventata la malattia di tutta la famiglia. Quando dal finestrino dell’ambulanza intravidi la scritta rossa “Bella Napoli” della nostra pizzeria capii che eravamo arrivati. Fu una vera impresa salire a casa: sulle strette scale del vecchio palazzo la barella non riusciva a girare. Tra le voci dei vicini, il trambusto ed i comandi impartiti dal provinciale alla squadra, mi ero estraniata, avevo chiuso gli occhi e pensavo solo ai miei due figli che stavo per riabbracciare, alla forza che mi avevano trasmesso per sopravvivere in quell’inferno, con i buffi disegnini e le loro lettere sgrammaticate che mi mandavano ogni giorno.
Finalmente a casa mia! Quasi non la riconoscevo, veramente sembrava una camera d’ospedale. Il provinciale prima di andare via disse che l’indomani avrebbe mandato due infermieri: ma non capii il perché. Puntualmente il giorno dopo si presentarono in casa un omone con la voce grossa ed una ragazza XXL con la pettinatura alla Litz Taylor. Pensai “ma questi che dovranno farmi, povera me tra le loro mani, anzi manoni”. Parlottarono qualche minuto con Marianna; poi cominciarono a predisporre il tutto per farmi lo shampoo ed il bagno. Mi sballottarono di sotto e di sopra, mi massaggiarono i muscoli con forza e mi strofinarono sulla pelle una crema profumata. Alla fine mi sentii veramente bene. L’omone, sistemando le ultime cose, mi chiese se mi piaceva il brodo di piccione; gli risposi schifata “No”. Il terzo giorno ritornò il provinciale per una verifica al ventilatore. Gli accennai la storia del piccione. Mi disse che Mario, così si chiamava l’omone, nella sua campagna allevava piccioni il cui brodo era considerato, nella cultura contadina, un toccasana per tutti i malati. Allora capii la premura, mi commossi: erano stati veramente disponibili e protettivi con me ed invece io avevo risposto con durezza. Marianna sembrava diventata bravissima, aspirava, cuffiava, scuffiava la cannula, spegneva gli allarmi, chiamava il provinciale al telefono e faceva quant’altro poteva essere utile per mandare avanti quella rianimazione casalinga. Passati i primi giorni tranquilli improvvisamente le attrezzature cominciarono a dare i numeri: allarmi in continuazione, il respiratore ballava come un frullatore, i tubi si erano allagati d’acqua e Marianna era in preda al panico. Si attaccò al telefono strillando come una squilibrata: le macchine continuavano a suonare e l’acqua era tanta che quasi mi stava arrivando in gola. Non sapevamo cosa fare. Ma dopo una ventina di minuti finalmente arrivarono due infermieri trafelati, posano zaini e borsoni, mi cambiarono i tubi, smanettano sul respiratore, mi aspirarono un poco ed in pochi istanti tutto fu sistemato, come una magia. Che paura! Nessuno di noi poteva mai immaginare come fosse difficile gestire a casa una piccola rianimazione. Dovevo veramente ricredermi, erano davvero dei buoni professionisti. Dopo quell’emergenza diventò ancora più imbarazzante chiedere quello che, da qualche giorno, ci eravamo messi in testa io e mia cognata: partecipare ad una celebrazione religiosa che si sarebbe tenuta in una tendostruttura alla periferia di Napoli; ci tenevo ad essere presente per confidare nella grazia e nella misericordia del Signore che mi sosteneva ed anche per lasciare le porte aperte alla speranza. Capivo che era una richiesta esagerata e fuori luogo, specie dopo l’incidente dell’allagamento del circuito. Ma mia cognata con la faccia tosta che si ritrova e per accontentarmi telefonò alla dottoressa: la regina, come previsto, negò l’assenso, confermando che era azzardato restare molto tempo fuori casa, portandosi dietro tutte le attrezzature. Nonostante la malattia avesse devastato il mio corpo, mi era forse rimasto ancora qualche briciola di quello che tutti avevano sempre considerata una donna affascinante. Lo specchio mi confortava: gli occhioni azzurri con le palpebre a mandorla e le grandi ciglia a ventaglio erano ancora quelli che anni prima avevano fatto innamorare mio marito. Decisi di sfruttare la mia residua seduzione femminile. Quando venne il provinciale gli riparlai dell’idea di andare alla celebrazione. Qualche sorriso ammaliatore, qualche lacrima al momento giusto, qualche veloce battito di ciglia, qualche parola patetica ed infine il colpo di scena di mia cognata, con la minaccia che anche senza di loro sarei andata alla riunione di preghiera, finirono per convincerlo! Dopo qualche giorno seppi che avevano già pianificato tutto: sapevo che era un’impresa quasi folle ma sapevo anche che solo loro avrebbero potuto realizzarla. Trascorrevano i giorni ed io di alzarmi dal letto neanche ci pensavo, dovevo rassegnarmi, a trent’uno anni la mia vita era finita, ero depressa, non volevo mangiare, in me c’era solo un idea negativa: farla finita. Gli infermieri venivano due volte al giorno, cercavano di stimolarmi, mi facevano stare parecchio tempo seduta, ma io respingevo ogni terapia e non avrei voluto vedere nessuno. Mio marito, quando finiva con il lavoro, mi stava vicino, era molto premuroso ed affettuoso. Mi parlava delle cose che avevamo fatto insieme, delle lunghe passeggiate a Mergellina e poi di una nuova pizza che voleva proporre ai clienti. Avrebbe avuto la provola al posto della mozzarella; gli aveva pure trovato un nome buffo, l’avrebbe chiamata “provolizza”: a modo suo cercava di scuotermi e di distrarmi allo stesso tempo. Ma nel suo sguardo leggevo un’angoscia che gli velava gli occhi. Il giorno della riunione di preghiera tutta la famiglia mi accompagnò oltre che la squadra con la regina, il provinciale, l’infermiere Mario e l’autista dell’ambulanza. Ma la quantità di attrezzi, di valigie, di apparecchi e di bombole di ossigeno che vidi in giro era enorme. Dovevamo andare a pochi chilometri da casa oppure attraversare l’oceano? Mi resi conto che avevo chiesto l’impossibile e che la dottoressa aveva ragione. Ma fortunatamente per me tutto andò bene quel giorno. Stavamo ritornando ed il più era fatto. Loro avevano faticato non poco a tenere a bada il respiratore che era andato spesso in allarme e che come tutte le macchine si era bloccato nel momento peggiore, durante la benedizione del Vescovo… In ambulanza rivolto a mio marito gli dissi nell’orecchio “Perché non chiedi all’autista di lasciare la tangenziale e di ritornare a casa, passando per il lungomare, ti ricordi per Mergellina, dove andavamo da ragazzi?...” Enzo restò ammutolito per un attimo, non se l’aspettava, non sapeva che fare, poi smarrito si rivolse al provinciale. La mia richiesta lasciò tutti di stucco; sfiniti com’erano non avevano voglia di stare dietro alle mie richieste strane e nessuno disse una parola. Solo l’autista reagì. Come un invasato ed a sirena spiegata, alla prima uscita uscì, schiacciò l’acceleratore e ci portò in dieci minuti al porto. Dopo una sgommata, con una manovra da manuale sistemò l’ambulanza sul bordo del molo, tanto vicino al mare che scendendo qualcuno sarebbe potuto finire in acqua. Tutti balzarono giù, mio marito rimase con me. Semiseduta sulla barella e con le porte aperte vedevo il sole al tramonto mentre si immergeva nel mare. Il rumore del respiratore era scomparso mascherato da quello delle onde che s’infrangevano sulla banchina. Con la cannula scuffiata il profumo di salsedine riuscì ad entrare nei miei polmoni e la brezza marina spazzò via l’odore di disinfettante. Mio marito mi strinse la mano, mi baciò sulle labbra ed io dimenticai di essere condannata. Di sera tardi ritornammo a casa. L’insegna della pizzeria era spenta. Pasquale, il nostro cameriere, consegnò le chiavi a mio marito salutandomi con un sorriso impacciato. Il trambusto che facemmo con tutta quella roba da dover spostare svegliò mezzo palazzo, ma nessuno protestò perché ci volevano bene e poi con il guaio che avevo passato… Mia cognata, ritornata prima, aveva messo a letto le bambine che, stanche, avevano preso subito sonno. Ringraziai tutti per quanto avevano fatto e li salutai. Giunse la notte e cominciai a pensare, rimuginare e sognare. Nei polmoni avevo ancora la salsedine e sulla pelle sentivo il soffio della brezza marina… Un infermiere dalla testa grande e gli occhi azzurri, più simile ad E.T. che ad un umano, mi disse che su di una rivista scientifica c’era la notizia di un ricercatore italoamericano che aveva messo a punto una terapia risolutiva per la SLA e che in quei giorni aveva iniziato la sperimentazione umana. Era quello che sognavo per me e per tante giovani persone vittime della SLA. Aprii gli occhi ed era quasi l’alba; dal balcone entrava il chiarore della luna ancora intrappolata tra i rami degli alberi ed illuminava pallidamente la stanza. Il rumore del respiratore con sue lucine accese ed il saturimetro con i suoi 94% mi ricordarono che non era ancora tutto finito. Con la poca forza rimasta al braccio destro cercai di aggiustare a malapena la cannula che mi dava fastidio. Iniziava un altro giorno e tutti dormivano in casa. Non so come finirà la mia vita; per quello che l’ho vissuta è stata una vita difficile, ma non posso dire sfortunata perché Dio mi ha dato le mie figlie e l’amore dei miei familiari. Ed ora grazie agli angeli della rianimazione continuerò a volare.