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Lo scopo di questo blog è far conoscere al pubblico, ai pazienti ed ai colleghi interessati, l’attività della Rianimazione dell'ospedale San Leonardo di Castellammare di Stabia, ASL NA 3 SUD; offrendo loro la possibilità di conoscere risorse infermieristiche ed esperienze facili ed utili da fruire.

Congresso Nazionale ANIARTI 2006

IL MIO MAGICO NATALE

Il campionato dilettanti di basket era finito con ottimi risultati ed io avevo avuto una proposta di lavoro per l’estate come allenatore in un villaggio turistico di Lugano. Da playmaker del quintetto ad allenatore, tra l’altro in vacanza, era il massimo che poteva capitare ad un ventitreenne. Così partii. Il villaggio era un piccolo paradiso del Canton Ticino, arroccato su di una collina. I giorni trascorrevano alla grande, tra lavoro e divertimento; le giornate erano interminabili, trascorse fino a notte fonda, quando con altri animatori facevamo il programma del giorno dopo. Ero felice. In una grigia giornata di fine agosto ci fu uno di quegli acquazzoni estivi: mi prese in pieno lungo la strada d'accesso al villaggio. Tornai in camera inzuppato fradicio, feci una doccia calda ed andai a letto con qualche brivido di freddo. Trascorsi la notte agitato e smanioso, avevo caldo e dolori a tutti i muscoli. Misurai la febbre ed era quasi 40; avevo i sintomi di una classica influenza. Pensavo che con una giornata di riposo ed un’aspirina mi sarebbe passato tutto. Ma dopo tre giorni di letto, mi sentivo ancora peggio e molto debole, con nausea e febbre alta, tanto che mi portarono in ospedale. Dopo poche ore mi sentivo sempre più male, non mi reggevo in piedi e non riuscivo a respirare: una sensazione bruttissima. I medici decisero il ricovero in rianimazione. Sentii parlare di sindrome di Guillain Barrè. Seguirono due mesi d’inferno, non riuscivo ad ingoiare, a respirare, a parlare al punto che mi fecero la tracheotomia per farmi respirare con una macchina che chiamavano “ventilatore polmonare”. Ma mi sentivo sempre peggio tanto da non poter mangiare e bere. Così mi misero la PEG, un tubo nella pancia per l’alimentazione. In quel reparto, lontano da casa, mi sentivo in un altro mondo ed ero depresso. Era difficile parlare con qualcuno, erano tutti di poche parole: regole rigidissime e che nessuno osava infrangere. Il primario girava poco in rianimazione. Gli infermieri li vedevo come automi telecomandati; chiesi loro di parlare con il primario e dopo due giorni si presentò davanti al letto un omone biondo che, puntandomi il dito, proprio come in quel film di Troisi, mi disse: “La sua potrebbe essere una malattia autoimmunitaria, relativamente rara, che colpisce il sistema nervoso, caratterizzata da paralisi progressiva; stiamo facendo di tutto per attuare una terapia idonea secondo i protocolli scientifici e le garantisco che ci stiamo impegnando al massimo”. Parole che aumentarono la mia depressione ed il mio sgomento. Volevo svegliarmi, convinto di aver sognato, ma era tutto reale; stavo vivendo qualcosa di inconcepibile e che non pensavo di poter superare, non riuscivo a parlare, avvertivo l’aria spinta dalla macchina che mi entrava in gola e capivo di dipendere da quell’aggeggio. Avevo fiducia dei medici e dell’ospedale; i miei genitori mi avevano detto che era uno dei migliori della Svizzera. Ma avevo la sensazione di peggiorare sempre più. Ogni giornata era pesante; si sentivano i bip degli apparecchi ed un asfissiante odore di disinfettante; le luci del soffitto mi davano fastidio, ovunque giravo gli occhi, per quel poco che potevo, vedevo persone immobili nei letti con tubi e cavi dappertutto. Vedevo girare intorno a me medici ed infermieri che mi davano farmaci e sacche di nutrizione, era il mio tormento fisico e mentale: “terapia somministrata al letto quattro, aspirazione al letto quattro, eritropoietina praticata al letto quattro, letto quattro, letto quattro, …”. Basta, basta, nessuno chiedeva il mio consenso, ero solo un manichino che occupava il letto quattro, mi sentivo una nullità, dipendevo totalmente da altri e mi resi conto che stavo giocando l’ultima partita della mia vita e che la stavo perdendo. Dopo circa due mesi, una mattina mi annunciarono che venivo trasferito in un’altra rianimazione, aperta da poco a Castellammare, vicino casa mia, per poter cominciare, successivamente, la riabilitazione. Non l’avevo bevuta, ormai mi avevano scaricato, quelli pensavano più al contenimento della spesa farmaceutica, che alla mia salute, e poi, una rianimazione nuova a Castellammare, un paese che neanche conoscevo! Già il nome, “castello a mare”, mi faceva pensare più ad un film di Walt Disney che ad un posto dove guarire. E così mi impacchettarono in un’ambulanza, insieme a mio padre e mi spedirono con un viaggio di 1000 km, di notte, verso Castellammare. Pieno di ansia arrivai in questo reparto e la prima persona che incontro fu un tizio che si muoveva come una trottolina; disse di essere il caposala, mi salutò ed esclamò, riferendosi ai miei 2 metri e 5 centimetri: “caspita, quanto sei lungo, qui bisogna allungare il letto o segare le gambe”. Cominciamo bene pensai, questo tipo non è proprio affidabile; allungare il letto, ma cosa dice? Si riferiva ai soliti arrangiamenti alla napoletana; in due mesi ero abituato ai metodi rigidi delle infermiere teutoniche: se questo è il caposala, figuriamoci il resto come sarà in questa rianimazione del “castello a mare”... Dopo poco, mentre mi stavano sistemando, si presenta il capo del “castello”, il primario, e mi dice: “Peppino, ho studiato la tua cartella, resterai pochi giorni con noi e poi ti dimetteremo”. Ma quali pochi giorni, tra me e me pensavo, sono stato due mesi a Lugano e non ci sono riusciti. Mi mettono a letto e curiosamente lo sentivo comodo, proprio a mia misura, arriva la trottolina e mi chiede: “tutto a posto, comodo il letto?”. Forse aveva proprio ragione, il letto era stato allungato, premendo un telecomando. L’ambiente sembrava accogliente, diverso dalle rianimazioni dove si sente respirare la morte. Si sentiva musica, Pino Daniele, Edoardo Bennato, cantanti conosciuti ma non di mio gradimento. Allora con il mio filo di voce, chiamo un infermiere calvo e tutto rosso, che somigliava a quel nano di Biancaneve e gli chiesi, un poco per darmi un atteggiamento ed un poco per cercare un contatto: “che musica avete?”. Lui mi rispose: “se mi dici quale preferisci, te la faccio ascoltare”. Gli dico: “compilation 2005”. “Ok ce l’abbiamo”, strano, quasi sapessero le mie preferenze. Questa cosa fece scattare in me un qualcosa che non so descrivere, pensavo alla musica dell’estate che ascoltavo nel villaggio. Passa il pomeriggio e, per occupare il tempo, cerco di capire il metodo di lavoro degli infermieri. Il giorno seguente alle sette, arriva in reparto il turno del mattino; facevo finta di dormire ed osservavo dai vetri della sala controllo gli infermieri che parlano tra di loro; sembrano dei pesci in un acquario, pensai. Cerco di leggere il labiale, ma non ci riesco. Sentivo odore di caffé nell’aria: ovviamente non era possibile, era solo la mia suggestione e forse la mia malattia aveva intaccato anche l’olfatto! Come per incanto, uno degli operatori socio sanitari, che secondo me fino a poco tempo prima faceva il calzolaio, s’accorge della mia difficoltà di essere spettatore di quest’incontro come al bar degli amici, esce dall’acquario, si avvicina e mi dice: “vuoi un poco di caffé?” Istintivamente rifiutai, anche se fui contento di come il mio naso funzionasse ancora. Quasi offeso della mia reazione disse: “chiediamo al medico”, come se fosse una medicina. Ma dove ero capitato, questi sono tutti matti. Ed allora come per giustificare la sua offerta mi dice: “Guagliò, la tazzina di caffé è il rimedio più semplice che c’è. Densa, bollente, dolce e cremosa è una gioia per il palato che ti solleva e ti rinfranca, ti dà la carica che in quel momento manca. Non è l’effetto della caffeina che ti ridà la forza che avevi perso prima. Il caffé è una gioia, un premio che ti concedi, una pausa di riflessione su tutto ciò che vedi. E’ un modo di dire che ti vuoi tanto bene e che prendere la vita con filosofia conviene. E’ un atto d’Amore verso te stesso che però non devi fare troppo spesso. Peppì, anche sé è meglio evitare ma una tazzina di caffé non può far male se ti tira su il fisico ed il morale”. In fondo, aveva ragione, quella era la filosofia della vita, accettai quel poco di caffé che mi fece ritornare con la mente a prima della malattia. Dopo poco si avvicinano al letto quattro infermieri, Antonio, Ciro, Giovanni ed Antonella; strano il primo giorno e già conoscevo i loro nomi; degli infermieri di Lugano, dopo due mesi, a stento ricordavo la fisionomia. Antonella, che sembrava la sorella del nano, con una voce gentile e suadente mi dice: “Giusè facciamo anche la barba stamattina?”, risposi di no; lei insisteva, perché a suo dire non ero presentabile con quei capelli folti e la barba lunga, cercava di convincermi, allora venimmo ad un accordo, che l’avrei tagliata quando sarei stato dimesso. Queste attenzioni, erano servite a farmi sentire oltre gli orizzonti e le distanze di una vita bloccata da una malattia arrivata all’improvviso, mi vedevo nello specchio dei miei pensieri, ma in quel momento mi mancavano le forze e non riuscivo a raggiungermi, mi sentivo come un cane bastonato in un mondo capovolto che mi spingeva giù. Comincia il giro-visita, vedo da lontano un medico alto più o meno un metro ed … una vigorsol, con in mano la mia cartella clinica ed i miei esami, s’avvicina, mi fissa, legge gli esami, lo vedo preoccupato, rilegge gli esami, fa una smorfia di dissenso, parla con Antonio, chiama la trottolina, ma non riesco a capire cosa si dicono; mi sembra molto confuso, alla fine si avvicina al letto e mi dice: “Ciao Peppino, sono Antonio Coppola, ho pensato di farti mangiare qualcosa di sostanzioso”. Ah, finalmente uno che dice una cosa sensata, mangio e che mangio? Ma se mi alimentano ancora con la PEG; forse qualche schifo di pappina venuta dalla farmacia. Invece io sognavo la pizza, gli spaghetti, le patatine, ma chissà quando e se riuscivo a mangiarle; alla fine prescrive una dieta ipercalorica ed iperproteica, da un calcolo veloce, peso altezza e non so che, esce fuori 400 cc. di brodo vegetale in 24 omogeneizzati da 80 gr. divisi in quattro pasti. Buonanotte pizza, spaghetti e patatine, dovevo continuare ad immaginarli. Giunge il turno del pomeriggio, nel frattempo avevano consegnato gli omogeneizzati e con quella dose ci mangiavano sicuramente tutti i bambini della pediatria. Si avvicina un infermiere, era la prima volta che lo vedevo, somigliava all’omino con i baffi della Bialetti, con un siringone ed una vaschetta di alluminio in mano mi dice: “Giuseppe è arrivato il pranzo, vuoi mangiare?”. Non risposi, per me quella era una violenza, alimentarmi contro voglia, attraverso fori innaturali, se avessi avuto il controllo della PEG, l’avrei chiusa come fanno i bambini che chiudono il musetto quando non vogliono mangiare. Il giorno dopo, al giro visita, mi confermano la terapia e comincio ad ipotizzare che da quel reparto non sarei più uscito. Nulla di nuovo se non il rapporto confidenziale ed amichevole con gli infermieri, che con i loro modi, mi trasmettevano emozioni che facevano viaggiare la fantasia. Non facevo più il conto dei miei giorni, mi sentivo come un gabbiano con le ali aperte verso l’orizzonte, nutrivo la speranza di uscire vittorioso da quella sfida con me stesso, cancellando dal tempo quel momento. Intanto erano ormai passate due settimane e cominciavo a sentirmi fisicamente più forte, riuscivo a fare qualche esercizio elementare con le mani, di nascosto provavo a girarmi nel letto, ma era molto faticoso. Di buon ora, mentre gli infermieri si apprestavano a cominciare la loro giornata in reparto, ecco che si avvicina il capo del “castello” e mi dice: “Giuseppe, stiamo andando bene, dobbiamo aspettare che risalgano i globuli rossi; ho aggiunto una piccola iniezione in terapia che ti aiuterà”. La conoscevo quella “piccola iniezione”, l’avevo già fatta, era la stessa che usano i ciclisti per doparsi; che bello, avrei fatto di tutto, da 24 sarei passato anche a 48 vasetti; allora chiesi se potevo mangiare qualcosa per bocca, magari qualche gelato, per riabituare le mie papille gustative. A questo mio desiderio, subito un’infermiera con la grazia di Mamy, non so come, si presentò con un gelato alla vaniglia, che dopo tanto sforzo riuscii ad ingoiarne solo tre cucchiaini. Grazie Mamy, sei riuscita ad esaudire il mio desiderio, forse sarà l’ultimo, beh meglio non pensarci. Gli infermieri di quel reparto erano tutti gioiosi, comunicativi, collaborativi, estrosi e chiassosi ma anche un poco magici, sempre pronti a fronteggiare qualsiasi difficoltà. Alla fine della seconda settimana, al controllo degli esami, i medici mi comunicano che l’emocromo era in netta risalita, la cura stava facendo effetto. Strano, perché io quella terapia già l’avevo fatta, senza esito; forse non erano i farmaci, ma l’incantesimo e la voglia di vivere che quei ragazzi mi aveva trasmesso, sin dal primo giorno. Avevo notato qualcosa di diverso, conoscevo i nomi di tutti, di qualcuno in particolare conoscevo anche quanti figli aveva e quanto pagava di mutuo al mese; a volte in qualche controversia di reparto, venivo chiamato in causa per definire chi aveva ragione: proprio cose da napoletani! Sembra strano, tutto questo mi aiutava molto, mi faceva sentire partecipe della quotidianità che ormai non vivevo più. Il tempo passava ed io cercavo di sentire i globuli rossi che circolavano nelle mie vene, percepivo le pulsazioni del cuore e ad ogni pulsazione, cercavo di contare le cellule che lo componevano, ne immaginavo sempre di più, più, più……
Al nuovo controllo giunge la bella notizia, avevo raggiunto il record di 9 gr. di emoglobina; era il mio passaporto per poter uscire da quel tunnel ed andare in riabilitazione. L’indomani cominciano a preparare quanto occorreva per il trasferimento, ancora un poco e sarei stato fuori. Allora ecco che si presenta Antonella memore dell’accordo preso, per forza vuole tagliarmi i capelli e radermi, m’immaginavo bello, non sopportavo l’idea che quel male arrivato all’improvviso mi avesse trasformato, allora per complicargli l’impresa dissi: “mi faccio radere solo se sei capace di farmi il pizzetto come Mimmo”. Mimmo era il Brad Pitt di quella rianimazione. Ella non si scompose e con tanta pazienza concluse l’opera. In ambulanza mi accompagnarono al centro per la terapia riabilitativa. Ma prima di andare via, volli salutare e ringraziare tutti uno per uno, con la promessa che in quel reparto ci sarei ritornato con i miei piedi. Al centro di riabilitazione, superata la fatica iniziale, le cose fortunatamente migliorano giorno per giorno: cominciai a camminare come un bambino ai primi passi. Intanto non dimenticavo la promessa: devo ritornare da quei ragazzi che mi hanno aiutato a crederci ed a credere in me stesso. S’avvicinava il Natale e sognavo di passarlo a casa. Da atleta quale ero, mi impegno al massimo negli esercizi. Alla fine ci riesco; il ventiquattro dicembre vengo dimesso per trascorrere il Natale con i miei. Prima di andare a casa, chiedo a mio padre di allungarsi fino all’ospedale di Castellammare per non tradire la mia promessa. Lui mi guarda incerto e non fa altre domande per non contraddirmi. Finalmente posso ammirare quella città che non conoscevo, tra Napoli e Salerno, una parte di paradiso, dove i monti si sposano con il mare, l’azzurro del cielo, il sole ed i suoi tramonti che ti fanno sognare. Potevano essere circa le 15.30, arrivo all’ingresso della rianimazione, in attesa di suonare il citofono, quando la porta automatica si apre improvvisamente. Esce, trotterellando con le sue carte in mano, proprio il caposala. Sono emozionato, ecco adesso mi nota, mi supera, ma non mi riconosce... Allora lo chiamo “Caposala”. Lui si gira, ha un attimo di esitazione, sgrana gli occhi e mi riconosce. Il suo viso si illumina, mi abbraccia visibilmente imbarazzato ed esclama “Peppino sei il più bel regalo che potessimo ricevere”. Proprio così, anche per me quello fu il mio magico Natale.